By Domenico Quaranta Il progetto era avviato da tempo, ma la notorietà è arrivata come conseguenza indiretta di un atto di censura. Il 28 gennaio 2008 si annuncia che la performance degli artisti sloveni Janez Janša, Janez Janša e Janez Janša, intitolata Signature Event Contexte programmata per l'opening del festival berlinese Transmediale, è stata estromessa dal festival. Gli artisti la eseguono ugualmente, la sera prima, e invitano i curatori a un confronto pubblico. Il confronto non ci sarà, ma il 31 gennaio compare un altro comunicato, sottoscritto da tutte le parti: la performance è stata reintegrata nel programma, pur con la presa di distanza della curatrice ospite della mostra, Nataša Petrešin Bachelez, le cui “convinzioni curatoriali ed etiche” erano state all'origine dell'esclusione. Nel contesto di un festival intitolato alla cospirazione, il fatto è apparso prima scontato (leggi: un colpo di teatro organizzato), poi paradossale, o meglio rivelatore della tendenza, tutt'altro che rara, a sfruttare l'appeal di un tema “caldo” senza essere in grado di affrontarlo in maniera radicale. Ma non è della censura che vorremmo parlare, bensì di Janez Janša. In Slovenia pare ce ne siano una decina, compreso il Primo Ministro in carica. Nell'estate del 2007 tre noti artisti sloveni hanno chiesto, e ottenuto, di cambiare il proprio nome in Janez Janša. Difficile non interpretare questa operazione in senso politico, anche perché pare che i tre professino pubblicamente un sostegno incondizionato al loro Premier, forse nell'intento di confondere i militanti del suo (loro?) partito. Ma c'è di più, e non servirebbe nemmeno la performance berlinese per farcelo capire. C'è il lavoro sull'identità dell'artista, il carattere “auratico” della sua firma. E c'è la pratica di manipolazione e di falsificazione identitaria. Due filoni che vantano, nell'arte contemporanea, illustri precedenti, ma che Janez Janša aggiorna a un'epoca in cui l'identità si è parcellizzata in una valanga di documenti, codici, tracce materiali e immateriali che ci identificano e ci perseguitano. Diventare Janez Janša non è solo un fatto esistenziale: è, prima di tutto, il frutto di una paziente, interminabile odissea nei pubblici uffici. Tuttavia diventare un altro è, e rimane, una svolta radicale. Nella performance berlinese, i tre Janez corrono, armati di trasmettitore GPS, nei corridoi del Memoriale dell'Olocausto di Berlino, ripetendo ossessivamente “Il mio nome è Janez Janša”. Il GPS trasmette i loro movimenti a una mappa online che ne rivela il senso: i tre stanno tracciando la loro firma fra i cunicoli del Memoriale. Janez Janša ricorre a Derrida per spiegare la natura di “evento” della firma, la sua funzione (attestazione di presenza, reificazione del qui e ora) e la sua relazione con il contesto: un contesto che, a detta dell'architetto che l'ha costruito (Peter Eisenman) impone una fruizione privata, un'esperienza personale. La firma diventa “un evento che ricontestualizza il luogo della firma.” Diventa un lungo, sofferto processo di riconquista identitaria, un grido pubblico di affermazione del sé perpetrato nel luogo che intende preservare la memoria di un atroce, paziente lavoro di annullamento identitario. Chi vuole essere Janez Janša? Originally published in Flash Art n˙ 269, April – May 2008 |
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